L’intenzione insita in ogni cultura e quella di stabilire un confine permanente tra il mondo dei vivi e quello dei morti, i romani non facevano eccezione e la conseguenza prima del loro impegno nel tenere separate le due realtà, è l’esorcismo della morte.
Un mondo minaccioso, magico e tetro che mal si accordava con l’ordine e la giustizia che la Res Publica assicurava ai cittadini viventi, era piuttosto necessario che tale istituzione provvedesse anche ai cittadini non più attivi, con una serie di riti che rimarcassero rispetto e separazione.
Tutto ciò che può costituire un pericolo per il cives, andava reso inoffensivo, per questo vengono presto emanate delle leggi che limitino il contatto tra l’ambiente-città e l’ambiente-necropoli, infatti già tra le Leggi delle XII Tavole si cita il divieto di inumare o cremare gli adulti all’interno degli spazi urbani.
Le città dei morti vengono quindi organizzate in modo via via più sistematico, lungo le vie di accesso alla città (si presti particolare attenzione alla notevole Tomba degli Scipioni e i numerosi rilievi funebri che decorano le tombe lungo la Via Appia); i defunti non possono in tal modo accedere alla città e reclamare alcun diritto di cittadinanza in quanto ormai non sono altro che spiriti. L’estinto viene definito “Colui che ora tace” e coloro che non possono parlare, non possono partecipare alla vita sociale e politica della città.
Nel pensiero romano, si smette di esistere nel momento esatto in cui avviene il decesso, l’ Umbra abbandona il corpo e raggiunge gli Inferi, un mondo silenzioso e tenebroso; i romani non lasciavano mai nulla al caso ed istituirono una funzione, espletata dagli schiavi, detti lantenari, che avevano la funzione di illuminare la via al proprio padrone, come facevano quando era in vita per ricondurlo a casa durante la notte.
La “vita” del defunto prosegue in modo meno intenso, ma continua! I Romani immaginavano che l’Umbra, fatta di particelle incorporee che mantengono l’aspetto fisiognomico del defunto, dimorasse accanto ai resti mortali e che mantenesse una parvenza di coscienza e in virtù di questo necessitava di offerte per il suo sostentamento.
La nostalgia e l’invidia sono tratti caratteristici della vita oltremondana, il defunto può tornare per perseguitare i suoi avversari o ancora, l’insepolto è una minaccia enorme per la società perchè sul suo corpo non sono stati effettuati tutti i riti necessari alla definizione del suo status e quindi lo spirito finirebbe per ritrovarsi in uno stadio intermedio tra il mondo dei vivi e quello dei morti e vagherebbe alla ricerca di chi gli ha negato la sepoltura.
Gli abitanti dell’Aldilà sono Lemures e Manes, considerati assimilabli ad una forma divina, Roma celebrava i Lemuria il 9, l’11 e il 13 maggio: durante la celebrazione il paterfamilias offriva agli spiriti per nove volte delle fave nere e si riteneva che le Umbrae venissero a raccogliere le offerte, era una sorta di trappola, al momento dell’arrivo dei morti il celebrante pronunciava delle formule che le avrebbero tenute al di fuori della città.
L’idea della fine della vita non abbandonava mai il romano che si circondava, soprattutto nei momenti più gioiosi, di elementi che ad essa rimandavano.
Petronio è l’esempio più popolare, nel suo Satyricon ci parla dell’esagerato banchetto dell’arricchito Trimalchione che fa servire ogni sorta di ricercate prelibatezze alla sua tavola per ostentare la sua raggiunta posizione sociale.
Il Memento Mori si manifesta, come prevedibile, al momento di servire il vino; il vino invecchiato di 100 anni fa esclamare al padrone di casa “Ahimè, dunque il vino ha vita più lunga dell’omuncolo. Ma allora inzuppiamoci le budella. Il vino è la vita.”
A quel punto il servo porta uno scheletro d’argento, la Larva, interamente snodabile, lo getta al centro del tavolo e Trimalchione esclama “ […] perciò viviamo la vita finchè siamo vivi e vegeti!”
Tutto questo lo vediamo materialmente espresso nei 109 pezzi di pregiata oreficeria che compongono il Tesoro di Boscoreale, rinvenuto in una villa romana in Contrada Pisanella-Settermini, ora conservato nel Museo del Louvre.
Gli oggetti compongono un pregevolissimo servizio da tavola con utensili adatti alla mescita del vino che, alla maniera romana, veniva tagliato con spezie e miele e diluito, spesso perfino con acqua di mare; vassoi, saliere, recipienti per salse e anche specchi completano il tesoro.
Notevoli sono le coppe potorie con temi vegetali e mitologici e le coppe funzionali all’esibizione del bello con ritratti e pregevoli fregi, tra i più particolari degli oggetti, spicca la Coppa degli Scheletri.
Coppa monoansata a pareti dritte leggermente troncoconiche, la Coppa degli scheletri è in argento dorato lavorato a sbalzo e il suo peso si aggira attorno al mezzo chilogrammo; il decoro è corredato da iscrizioni che identificano gli scheletri dei filosofi che discorrono sulla vita, sulla sua durata e raccomandano al vivente di godersi la vita finchè si è in tempo poiché essa sfuggente e il domani è sempre incerto, “Il piacere è il bene supremo”, dicono gli scheletri di Zenone ed Epicuro.
Nella scena compaiono ghirlande di fiori oggetti simbolici uno degli scheletri pone su di una bilancia una farfalla che rappresenta l’anima del defunto ed una sacca, piena dei desideri terreni; la borsa della saggezza sovrasta la scena, sul fondo della composizione, due cani si accoppiano.
Il tema della brevità della vita è noto all’arte romana, specialmente nel contensto dei banchetti, in questo caso l’intento è parodistico, l’opinione dei filosofi è ininfluente di fronte alla morte e quindi l’unica cosa che bisogna fare è godersi le gioie della vita.
La danse macabre, tema iconografico medievale, nel mondo romano potremmo dire che ha un’accezione vicina a quella che definiremmo moderna, in quanto non direttamente connessa con una crisi imminente (la peste) ma con il naturale svolgersi degli eventi.
La scena qui presentata è molto più vicina alla gioiosa danza degli scheletri Burtoniana, “Dai, dai, che tocca anche a te, morire ad oltranza, che male c’è, tu prova a scappar, raccomandati ai Santi, ma dovremmo alfin morir tutti quanti” ( La Sposa Cadavere, 2005).
Arianna Santini