- Qual è il significato delle Digital Humanities?
È difficile dare una sola risposta a una domanda a cui continuano a essere dedicati libri e articoli scientifici. Cercando di deviare da banali e inesatte definizioni, posso affermare che è la transdisciplinarietà il termine ultimo che finora trova il consenso comune tra i principali studiosi delle Digital Humanties. Infatti, non si tratta di un soggetto dai contorni definiti, ma di un nucleo composito, una combinazione di linguaggi, metodi strumenti, azioni e interpretazioni, che si irradia su differenti contesti disciplinari dalla storia, all’archeologia, la linguistica, la sociologia, e a adesso anche la storia dell’arte. Per un’erronea semplificazione si è portati a descrivere le Digital Humanities come un processo che accosta alle discipline umanistiche i linguaggi e i metodi propri delle scienze informatiche riservando a queste ultime un ruolo per lo più strumentale, utile all’opera di acquisizione e archiviazione delle informazioni. Questo appare funzionale soprattutto in presenza di una cospicua mole di documenti cartacei o analogici, come si sente spesso dire, che per la loro natura deperibile necessitano di un luogo dove possano essere conservati e fruiti in modo da preservarli e renderli accessibili per finalità di studio. Un lavoro che è facilmente riconoscibile nell’opera di archivi e biblioteche. Eppure, la sola attività di digitalizzazione non è sufficiente a descrivere il carattere dell’umanistica digitale. Jeffrey Shanpp, considerato il “guro” delle Digital Humanities, ritrova il suo aspetto di singolarità nell’aver eletto il dato digitale a bene culturale. Questo implica che, una volta ricavata, l’informazione digitale si presta a essere conservata, tutelata, comunicata e promossa, diventando parte delle attività umane. La sua componente pervasiva nei differenti campi del sapere umano predispone il dato culturale digitale a interpretazioni, studi e ricerche di stampo laboratoriale per testare i differenti contesti in cui può intervenire. Sono molteplici e differenti le risorse a cui oggi vengono ascritte le ricerche di Digital Humanities, basti pensare, per citarne solo alcune, alle edizioni critiche digitali e ai progetti ipertestuali; al digital cultural heritage e a tutti gli strumenti per l’elaborazione digitale e l’archiviazione di fonti e documenti nel campo dei beni culturali; ai repository e ai meta-opac che analizzano e interpretano i dati e le risorse digitali; agli strumenti per amplificare la visione e la rappresentazione del mondo, come la virtual reality e l’augmented reality; oppure che sollecitano un’interazione col mondo come la gamification o tutti quegli strumenti di ergonomia cognitiva e intelligenza artificiale che stimolano la comunicazione uomo – macchina; senza escludere tutto il comparto riservato a mezzi che, grazie alla rete, si occupano della trasmissione e condivisione della conoscenza, a partire da piattaforme come le wiki fino ad arrivare a forme di editoria digitale e a digital library come Europeana. Ho riportato esempi che riferiscono maggiormente agli ambiti dei beni culturali, ma l’elenco potrebbe continuare setacciando i vari impatti del digitale nelle scienze cognitive, filosofiche, pedagogiche e comportamentali, politiche e sociali. Senza contare il capitolo riguardo all’uso del digitale nelle forme e nelle espressioni artistiche, al digital storytelling e fino alle questioni di diritto legate al copyright per lo sfruttamento delle immagini digitali.
- Quale utilizzo può fare l’utente medio di queste risorse?
Credo che alcuni di questi esempi siano già diventati parte del vivere quotidiano, strumenti considerati come acquisiti dall’utente generico senza porvi necessaria attenzione. Penso a Wikipedia, agli ebook e al comparto dell’editoria digitale, fino ai dispositivi touch screen con funzione didascalica che sempre più musei stanno adottando all’interno delle proprie collezioni. Si tratta però della punta dell’iceberg rispetto agli strumenti digitali esistenti che possono facilitare e rendere più immediato l’accesso alla conoscenza. In un momento di emergenza dovuto alla diffusione del covid-19 e che ha costretto la popolazione di interi continenti entro le proprie mura domestiche, la rete sta evidenziando la portata e i limiti di tali risorse. Accanto al loro affermarsi come dispositivi per la didattica, lo studio, la ricerca e la fruizione a distanza di musei e gallerie manca un’adeguata pubblicità di questi mezzi che, oltre a informare dell’esistenza, li possa rendere facilmente riconoscibili e utilizzabili da un pubblico generico e stratificato per età, interessi e bagaglio culturale.
- Cosa cambia nella fruizione dell’arte grazie agli strumenti digitali?
All’interno delle Digital Humanities la storia dell’arte ricopre un ruolo stimolante perché la sua espressione si presta a molteplici declinazioni che si identificano per due diversi approcci: il primo dedicato alla digitalizzazione del materiale storico-artistico, l’altro rivolto all’analisi digitale degli stessi documenti. All’interno delle risorse per la storia dell’arte digitalizzata trovano spazio un’eterogenea quantità di fonti documentali, quali carteggi, inventari, cataloghi, registri, atti notarili, ma anche fotografie e stampe che popolano i database del web di indici, archivi, biblioteche e fototeche. Oppure vivono quali emanazione di questi stessi centri all’interno di piattaforme nate da progetti internazionali, come il Medici Archive Project https://www.medici.org/, o come laboratori multimediali di istituti di ricerca quali il Digital Humanities Lab della Biblioteca Hertziana a Roma https://www.biblhertz.it/it/digital-humanities-lab. In altre forme la digitalizzazione affronta la riproduzione delle opere d’arte nei suoi aspetti morfologici e diagnostici, consentendo di penetrare la materia pittorica e di rilevare elementi costruttivi di un dipinto per finalità legate all’attribuzione come alla conservazione; oppure consente di amplificare il confronto di più opere nello studio monografico di un artista, il Cranach Magnified https://www.getty.edu/museum/conservation/cranach_comparison/ è un progetto esemplare in tal senso; la digitalizzazione interviene sul contesto, permettendo di rappresentare assetti espositivi sulla base delle informazioni desunte dai documenti, di simulare possibili soluzioni decorative ricomponendo virtualmente collezioni disperse, verificando la validità dei dati in possesso attraverso ipotesi ricostruttive iperrealistiche. La fruizione artistica di musei e gallerie è quella che trae maggiore beneficio dalla riproduzione digitale agevolando la visita a distanza di opere e collezioni talvolta non accessibili fisicamente e preparando al godimento estetico visitatore in loco. I siti web dei maggiori musei del mondo investono le loro energia a presentare una collezione percorribile a distanza, affidando spesso questo compito a fotografi e sviluppatori di importanti società di software, il Google Art &Culture https://artsandculture.google.com/è probabilmente l’esempio più noto. Alla storia dell’arte digitale intesa nella sua interpretazione anglofona come Digital Art History, invece, si riferiscono quei processi analitici che rappresentano graficamente i dati documentali e permettono, ad esempio, di visualizzare evoluzioni e mutamenti del mercato dell’arte e del gusto riferiti a un determinato artista, piuttosto che a una collezione e a un periodo storico. L’analisi computazionale è forse l’ultimo baluardo a cui si sta rivolgendo con insistenza la Digital Art History rivelandosi uno strumento utile nel fornire immediata evidenza alle indagini storico-artistiche.
- Quali sono le potenzialità, ancora poco conosciute, di questi mezzi?
Le opportunità offerte da queste risorse sono correlate ai progressi tecnologici e alla condivisione di un protocollo comune per l’accesso alle infrastrutture digitali, e in primo luogo alla possibilità di dotare ogni sede museale di un hot-spot per la connessione in rete. Partendo da questa premessa, i musei stessi sono i principali contesti a beneficiare di tali risorse per affiancare alla fruizione delle loro collezioni lo sviluppo di laboratori dedicati alla ricerca multidisciplinare attorno all’opera d’arte. Le attività condotte all’interno dei laboratori per le Digital Humanties di università e istituti sarebbero in tal modo a disposizione della vasta utenza, uno stimolo alla curiosità del visitatore occasionale come del frequentatore assiduo o del conoscitore. Si imbastisce così una rete di interessi che hanno protagonista l’oggetto artistico e che si proietta, coinvolgendolo, anche sul tessuto cittadino sensibilizzando gli attori economici e politici locali nel legare la ricerca sul bene culturale e alla sua fruizione. Il progetto per la digitalizzazione dei fondi della Biblioteca Estense Universitaria di Modena, l’Estense Digital Library https://www.progetto.estense-digital-library.it/condotto dalle Gallerie Estensi, l’Università di Modena e Reggio Emilia e Ago-Fabbriche Culturali è un esempio virtuoso di come possa concretizzarsi questa rete di collaborazioni per cucire cultura ricerca e territorio.
- In che termini le risorse digitali possono essere utili al mercato dell’arte e viceversa?
Credo che l’approccio analitico della Digital Art History sia l’aspetto che consenta di trarre beneficio agli storici dell’arte e ai vari operatori del mercato dell’arte, soprattutto quello antiquario. L’analisi dei movimenti attorno a un dipinto lungo un determinato arco di tempo può tracciare le preferenze culturali, le informazioni geografiche ed economiche di una specifica area di interesse, permette di risalire a luoghi di conservazione di un’opera e a dettagliare la provenance di ogni oggetto. L’accesso a registri e documenti digitalizzati e la libera consultazione di tali materiali facilita le ricerche degli storici così come dei mercanti antiquari, ma soprattutto crea un ambiente aperto per la condivisione di tali informazioni e per la diffusione della propria collezione sul mercato.
RINGRAZIO STEFANIA DE VINCENTIS PER AVER RISPOSTO ALLE DOMANDE CON PRECISIONE ED ATTENZIONE, RENDENDO COMPRENSIBILI I TERMINI TECNICI DEL MONDO DIGITALE.
STEFANIA DE VINCENTIS È DOTTORE DI RICERCA IN SCIENZE UMANE PRESSO IL DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI DELL’UNIVERSITÀ DI FERRARA, DOVE COLLABORA ALLA CATTEDRA DI STORIA DELL’ARTE MODERNA COME SPECIALISTA PER LE DIGITAL HUMANITIES. IL SUO CAMPO DI INDAGINE È RIVOLTO ALLA DIGITAL ART HISTORY, NELLO SPECIFICO, ALLO STUDIO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI E DELLE INFRASTRUTTURE MULTIMEDIALI CHE PARTECIPANO ALLA RICERCA, COMUNICAZIONE E GESTIONE DELLE COLLEZIONI MUSEALI ALLE STRATEGIE PER LO SVILUPPO DI UN TURISMO CULTURALE SOSTENIBILE. LA SUA FORMAZIONE ACCADEMICA È AVVENUTA TRA L’ACCADEMIA DELLE BELLE ARTI DI BOLOGNA E LO IUAV DI VENEZIA, PER POI SPOSTARSI A FERRARA, DOVE HA CONSEGUITO IL MASTER MUSEC, HA COLLABORATO CON LA FONDAZIONE ERMITAGE ITALIA E IL TEKNEHUB, TECNOPOLO DELL’UNIVERSITÀ DI FERRARA PER L’AREA DI COMUNICAZIONE E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE.
Lara Scanu