- Quali sono i principali problemi per quanto riguarda l’interazione tra fruitore e opera d’arte contemporanea in relazione all’esposizione di quest’ultima?
In fondo, credo, gli stessi di ogni epoca: la sua presentazione dovrebbe essere fedele alle intenzioni dell’artista e restituire all’opera il suo statuto di verità. Che però spesso non basta alla sua decodifica perché l’arte contemporanea non è solo l’oggetto che abbiamo di fronte, ma anche la sua narrazione, le modalità in cui è stata realizzata, la sua necessità, la sua relazione con la storia dell’arte recente, ovvero tutto l’apparato interpretativo che deve essere restituito perché l’incontro con lo spettatore sia pieno e consapevole. Insomma, il suo racconto è parte dell’opera, e le maniere di renderlo esplicito sono molte, a partire dall’allestimento, dal percorso museale, dalla relazione tra opera e spazio. E poi certo, dall’apparato testuale.

- Che ruolo ha il collezionista nella produzione dell’opera d’arte? Quali scelte applica, nell’acquisto, ai fini di una corretta esposizione nell’ambito della sua raccolta?
Il committente o collezionista ha sempre contribuito con i propri mezzi alla produzione: riscoprire la centralità della committenza ha per esempio permesso a Burkhardt prima e a Chastel poi di leggere correttamente il quadro della produzione artistica del quattrocento fiorentino, tanto per fare un esempio. E’ altrettanto vero però che oggi, in un momento in cui la committenza pubblica o istituzionale è sempre più latitante, e la tipologia di alcuni lavori richiede tempi e budget importanti, il ruolo del collezionista assume una nuova centralità. Sono frequenti le co-produzioni che vedono collaborare pubblico e privato, e altrettanto frequente l’impegno del collezionista nel sostenere progetti di artisti (che non sempre o non automaticamente entrano a far parte della propria collezione), o ancora – specialmente in Italia – la prosecuzione della tradizione di mecenatismo nella fondazione di spazi di produzione e esposizione di arte contemporanea che sono sostenuti da fondi privati, ma hanno vocazione pubblica. Questo per specificare che sostenere una produzione e collezionare sono due cose distinte, che a volte possono poi coincidere, ma a volte no. E allo stesso tempo è vero anche che non sempre le opere che entrano in collezione sono acquisite per essere esposte permanentemente: è il caso ad esempio delle collezioni di video e film, o di opere effimere di cui si può acquisire un certificato che ne regola la riproduzione – mi viene in mente un lavoro di AVAF acquisito dal MAM di San Paolo: una festa. O un lavoro di Etienne Chambaud nella collezione di Nomas Foundation, le cui condizioni di presentazione sono regolate da un contratto che prevede che l’opera se esposta, cessa di essere un’opera, quando conservata in magazzino e perciò non esposta, ne mantiene lo statuto.
Etienne Chambaud, Lo stato delle sirene. Intallation view, Nomas Foundation, Roma, 2010 (Ph. Altrospazio)
- Le opere d’arte contemporanea hanno talvolta dimensioni monumentali, sebbene non siano monumenti: quali problemi si pongono nella loro conservazione ed esposizione?
Nell’arte contemporanea il problema della conservazione è complesso e va analizzato caso per caso. Il video ad esempio è caratterizzato da una tecnologia in continua evoluzione e dunque di difficile conservazione sia a livello di supporto che di riproduzione. L’evemezialità o la obsolescenza è a volte centrale per il concetto dell’opera e dunque la sua scomparsa è prevista. Alcuni supporti sono instabili. Alcune opere sono realizzate con materiali instabili o che hanno reazioni chimiche imprevedibili e possono alterarle in maniera sostanziale. Le dimensiono monumentali – che in qualche modo coincidono con il minimalismo e l’arte ambientale, gli anni sessanta-settanta – hanno di fatto indotto a ripensare gli spazi espositivi anche in termini di volume. Poi oggi in effetti la tendenza è quella di avere musei monumento, o musei monumentali.

- Monumentale e monumento: due esempi di opere contemporanee per questi due termini e loro genesi (anche un’opera sola per tutte e due spiegando la differenza).
La serie dei monumenti di Thomas Hirschhorn, dedicati ad Antonio Gramsci, Georges Bataille, Baruch Spinoza e Gilles Deleuze: strutture temporanee, realizzate in materiali poveri e funzionali per la ridistribuzione del sapere, attivate attraverso la partecipazione delle comunità locali. O tutti i film di Steve Mc Queen, memoriali a quei morti per i quali non si celebrano commemorazioni pubbliche. O un lavoro sonoro di Susan Philipsz che si poteva ascoltare raggiungendo termine di una banchina della stazione di Kassel, nelle pause tra il passaggio dei treni, e che traduceva in forme di lamento funebre una composizione scritta e rappresentata nel campo di smistamento di Westebrok da Pavel Haas, deportato e morto a Theresiendstadt.
Ma anche l’aggettivo monumentale può essere ripensato e riscritto e avere poco a che fare con le dimensioni e molto con le aspirazioni, la capacità di racconto, la forza di un’opera.
- Se per l’artista antico erano le opere pubbliche a decretarne il successo, cosa invece lo decreta per l’artista contemporaneo? E quali sono gli spazi pubblici a cui l’arte dei nostri giorni può far riferimento?
In maniera cinica mi viene da dire che oggi è il mercato a decretare in larga parte il successo di un artista, ma questo non è del tutto vero. Il consenso attorno a un artista viene decretato da diversi attori: critica, collezionismo, istituzioni e pubblico e deve durare nel tempo. Allo stesso tempo la nozione di spazio pubblico nei nostri giorni è profondamente modificata: sono forse spazi pubblici aree come i cortili di aziende, i centri commerciali, i cortili di università private dove la vigilanza è privata e la proprietà anche e che pur ospitano o commissionano interventi pubblici? E la rete non è forse a tutti gli effetti uno spazio pubblico? I social network hanno cambiato la nostra percezione dei confini tra privato e pubblico, i meccanismi di produzione, la distribuzione e anche la formulazione del giudizio: pensa a Facebbok, al crowdfunding, al meccanismo di controllo foucaultiano che costruiamo attraverso piattaforme come air bnb o huber. Lo spazio pubblico è in evoluzione, e questo non può non avere un impatto sull’arte, sul modo in cui viene prodotta esposta e fruita.
Ringrazio la professoressa Cecilia Canziani per la disponibilità nel rispondere alle domande e la puntuale professionalità che la contraddistinguono.
Cecilia Canziani (Roma, 1976) è una curatrice e storica dell’arte. E’ docente di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti de l’Aquila, è Adjunct Professor presso la American University in Rome, e insegna presso lo IED di Roma. E’ stata co-direttrice di Nomas Foundation, centro per la ricerca e la produzione di arte contemporanea con sede a Roma (2009-2016) Ha co-curato il programma di commissioni di arti pubblica ZegnArt per il gruppo Ermenegildo Zegna (2011-2014). E’ stata membro fondatore dello spazio non profit per l’arte contemporanea 1:1projects (2006-2010). Si è laureata in Storia dell’Arte presso l’Università di Roma La Sapienza, ha conseguito un Master in Arts presso il Goldsmiths College dell’Università di Londra e il dottorato di ricerca in storia dell’arte presso l’Università di Napoli “Federico II” . E’ stata Research Fellow presso l’Henry Moore Institute di Leeds per l’anno 2014-2015.
Lara Scanu